Il soffio di Dio e le mani dell’uomo: dentro il laboratorio Venchi, dove gli organi a canne tornano a vivere
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Il soffio di Dio e le mani dell’uomo: dentro il laboratorio Venchi, dove gli organi a canne tornano a vivere
L’organo a canne è più di uno strumento musicale: è una macchina sonora che ha attraversato i secoli, mescolando arte, fede, ingegneria e poesia. La sua voce ha accompagnato generazioni di fedeli e di musicisti, raccontando la spiritualità di un luogo e il talento di chi lo costruì. Ma dietro ogni accordo che si diffonde sotto le volte di una chiesa c’è un lavoro silenzioso, quasi invisibile, fatto di precisione millimetrica e sensibilità artistica: quello del restauratore di organi.
A Bereguardo, in provincia di Pavia questa sapienza ha trovato la sua casa nella Alessandro Venchi SAS, dove tre soci hanno intrecciato vite e competenze in un’avventura tanto artigiana quanto visionaria: Alessandro Venchi, organista e restauratore; Giancarlo Quaroni, falegname dalle mani esperte; e Simone Quaroni, musicista diplomato in organo e clavicembalo. Insieme, con strumenti antichi e intuizioni moderne, restituiscono voce a organi muti da decenni, trasformando il mestiere in una missione culturale.
Le origini di una passione
Non c’è una dinastia familiare alle spalle di Alessandro Venchi, ma una passione coltivata tra violino, pianoforte e un amore precoce per la musica classica. Poi l’incontro con l’organo, dapprima a San Lanfranco e poi a Santa Maria del Carmine, che lo cattura al punto da trasformare la curiosità in mestiere. Lì conosce Simone Quaroni, giovane organista e clavicembalista, e suo padre Giancarlo, falegname che aveva costruito per il figlio un primo organo artigianale. Una combinazione insolita di attitudini che si trasforma in sodalizio: manualità, musica, tecnica.
Nel 2003, in un periodo tutt’altro che favorevole all’artigianato, nasce l’impresa. Alessandro porta con sé l’esperienza maturata dapprima durante il tirocinio legato ai corsi formativi e poi in altri laboratori di restauro, Simone aggiunge competenze musicali e sensibilità timbrica, Giancarlo mette a disposizione un patrimonio di attrezzi e conoscenze di falegnameria. Non servono macchinari industriali per restaurare un organo, ma servono le mani giuste e il sapere tramandato: in questo, i Quaroni rappresentano un anello indispensabile.
Restaurare significa restituire emozioni
Parlare di restauro organario non significa solo parlare di legni, metalli e colle. Significa raccontare emozioni. Uno degli interventi più significativi seguiti dal laboratorio Venchi è quello dell’organo della Basilica di San Michele Maggiore, a Pavia.
Un gigante sonoro con 2.791 canne, il più grande organo ottocentesco della provincia, che nel corso della sua storia era stato mutilato e spostato, perdendo parte della sua fisionomia originaria. “Il cuore dell’organo è il somiere – spiega Venchi – la grande struttura lignea che sostiene le canne e distribuisce il vento. Lì ogni foro è una voce, ogni registro una scelta timbrica. Quando lo ricostruisci, non stai solo rimettendo a posto un meccanismo, stai ridando identità allo strumento”.
Il lavoro è imponente: dalle 400 alle 700 ore, con smontaggi, ripuliture, sostituzione di molle e rimpellimenti in pelle di montone per garantire la tenuta dell’aria. Ma la parte più raffinata, quasi invisibile, è l’intonazione: dare il suono alle canne, decidere il timbro, scolpire la voce dello strumento. Solo dopo arriva l’accordatura, che regola l’altezza delle note. Due passaggi distinti, entrambi fondamentali.
Quando l’organo tornerà alle dimensioni originarie (4,6 metri di lunghezza il solo somiere maestro), diventerà il più imponente tra gli strumenti del territorio. Un risultato che non è solo tecnico, ma anche culturale: restituire a una comunità un pezzo della propria memoria sonora.

Competenze rare e difficili da acquisire
Il mestiere del restauratore di organi è oggi riconosciuto a livello normativo come restauratore di beni culturali – categoria 11: strumenti musicali, ma fino al 2018 non aveva un inquadramento ufficiale. La formazione rimane limitata: pochi corsi, poche occasioni di specializzazione, tanto apprendistato diretto. Alessandro Venchi ricorda il corso regionale di organaria a Crema negli anni ’90, tra i rari esempi in Italia.
“Serve manualità, certo, ma anche una conoscenza profonda della musica – spiegano – perché solo chi ha suonato l’organo sa interpretare davvero le ragioni di certe scelte costruttive. Il restauro non è mai un’operazione neutra: è un dialogo con chi ha progettato lo strumento secoli fa”.

Tradizione e innovazione: un equilibrio delicato
Il restauro esige fedeltà alla tradizione: colle reversibili, legni antichi, tecniche manuali non sostituibili. Eppure, qualche tecnologia moderna trova spazio. Nel caso di San Michele, Autocad ha aiutato a ridisegnare proporzioni e misure della parte centrale smarrita. È un esempio di come innovazione e tradizione possano coesistere: le mani fanno il lavoro, ma la tecnologia fornisce strumenti preziosi per il calcolo e la documentazione.

Comunità, visite e divulgazione
Non c’è solo lavoro da banco. Con l’associazione musicale Lingiardi, dedicata a una storica famiglia pavese di costruttori di organi, i soci organizzano concerti e visite guidate, in particolare per le scuole. L’obiettivo è chiaro: aprire il laboratorio, far toccare con mano ai più giovani cosa significhi far rinascere uno strumento che ha centinaia di anni. Un modo per evitare che questo patrimonio resti confinato in sacrestie e scaffali polverosi.
Sogni per il futuro
“Vorremmo costruire un organo nuovo – confessa Simone – non importa di quali dimensioni, ma capace di cristallizzare le riflessioni maturate negli anni”. Non una copia del passato, ma un organo che unisca tradizione italiana e sensibilità moderna. Non serialità, ma unicità. Una voce nuova che sappia dialogare con il nostro tempo, mantenendo radici profonde.

Ai giovani: un mestiere senza paracadute
Ai ragazzi che potrebbero avvicinarsi al settore, i soci non nascondono le difficoltà: precarietà contrattuali, guadagni talvolta incerti, tempi lunghi. “È un lavoro senza paracadute – dice Simone – devi volare e cercare di atterrare bene. Si tratta di macchine concepite uno-tre secoli fa, quando non esisteva progettazione seriale e sono sempre in grado di creare imprevisti insidiosi: di fatto sono pezzi unici. Per questo motivo, se si vuole che il manufatto funzioni alla perfezione, non puoi mai evitare le ore lavorative soprannumerarie necessarie a risolvere gli imprevisti suddetti. Ma se lo fai solo per denaro, non durerai. Serve passione, pazienza, perseveranza e capacità di visione”.
E Giancarlo aggiunge: “La soddisfazione vera è vedere un meccanismo che riprende vita, sentire che lo strumento respira di nuovo. Se non ti emoziona questo, non ha senso farlo”.
L’immagine di un suono eterno
Come descrivere l’organo a canne con un’immagine sola? Alessandro non ha dubbi: “È il soffio di Dio”. Una definizione che lega lo strumento alla sua vocazione spirituale e al contesto che lo ospita: la chiesa, con la sua acustica unica, amplifica quella voce magniloquente e pervasiva che, una volta ascoltata, non si dimentica più.

Testi: Pietro Rizzi Immagini e video: LuceGiusta di Lucia Tuoto

